CANTANDO PER IL MONDO -   segue 2° parte -

L'anno seguente, 1925, lo zio caposquadra mi riprese al lavoro della calcaia;


questo lavoro richiedeva che io trasportassi sassi sulle spalle, presso il
paese di Pescocostanzo, dove spesso pioveva. mentre il resto degli uomini si
riparava dentro la capanna, bevendo vino, il caposquadra mio zio, appena
usciva, il sole mi mandava alla ricerca delle lumache. Questo lavoro era fuori
dal patto, però io sopportavo perchè così godevo la solitudine del bosco, dove
potevo finalmente cantare senza essere disturbato. Però quando era ubriaco,
questo " mezzo zio ", geloso di mio padre che era in America e lui no, 
incominciava a dirmi delle cose familiari che io non conoscevo.
A volte, senza nessun motivo, mi schiaffeggiava e quando grattugiavo il
formaggio imponeva che cantassi ad alta voce, per paura che lo mangiassi.
Nessuno dei compagni alzava un dito in mia difesa, per paura di perdere il
lavoro. La bontà del mio spirito si inasprì e cominciai a pensare come
affrontarlo, ma suo cognato Giuseppe mi convinse a desistere da quel proposito,
perchè mi avrebbe compromesso. Corsi fuori dalla capanna, mi sedetti sotto un
albero piangendo di rabbia e, vedendo un treno passare, mi nacque l'idea di
fuggire. Erano le ore 16,00.
Quella note dormii dentro un vagone; prima dell'alba, mi alzai e cominciai a
camminare lungo i binari, percorrendo molta strada. Quando arrivai a Cansano e
raccontai le disavventure che avevo passato con i boscaioli, le famiglie
rimasero molto contrariate, specialmente quelle dei nostri parenti. Mentre
nella mia famiglia erano contenti del mio ritorno, notai la tristezza negli
occhi umidi di mia madre. Chiesi a mio fratello Antonio se la tristezza era
dovuta al mio ritorno, ma scuotendo la testa mia made mi avvicinò a sè e mi
disse: """ Come puoi pensare questo, quando tu sei la nostra unica speranza ?
"""".
Dopo alcuni momenti di silenzio, i miei familiari mi spiegarono la ragione
della loro tristezza: avevano ricevto una lettera di mio padre dall'America,
con la quale ci informava che aveva perso tutti i soldi, poichè la banca dove
erano stati depositati era fallita.

Mamma disse che da allora in avanti avremmo dovuto fare dei sacrifici.
Mio fratello Antonio studiava da ebanista a Sulmona con il maestro Pace ed io
fui il responsabile della famiglia. Erano più i giorni di lavoro che quelli di
scuola. Dovetti smettere di frequentare le lezioni di clarino. Il giorno che
andai a dire al mio maestro, il signor Vincenzo Barconi, che avrei dovuto
smettere le lezioni, fui accompagnato da don Ciccio. Egli disse al maestro che
la mia vera vocazione era il canto; quello, incredulo, mi invitò a cantare
delle scale musicale e ascoltando la mia voce anch'egli si convinse del mio
talento.
Alcuni giorni dopo ricevemmo dall'America una lettera di mio padre: ci diceva
che io dovevo partire per raggiungerlo e prima di compiere quindici anni, 
altrimenti avrei perduto la cittadinanza americana, che a quei tempi in Italia
era un grande previlegio.
Mio padre sfortunatamente non aveva la mia passione artistica, per cui impose
la sua volontà e mi forzò a partire. Ricordo chiaramente che la mattina della
partenza per Roma ero così impegnato a farmi il nodo alla cravatta per la prima
volta, che ci misi due ore.
Il viaggio da Cansano a Roma fu un'avventura per me: chilometri e chilometri
di campi coltivati e paesi appoggiati a montagne verdi si susseguivano l'uno
dopo l'altro: Mi accompagnava il caro signor Nardi, nostro segretario comunale,
che era di origine romana, e sarei stato a casa sua per uno o due giorni, onde
poter ritirare il mio visto d'espatrio.
CONTINUA   -  3° parte -